Cristina Campo – La disciplina della gioia – Con le lettere a John Lindsay Opie
Trasmissione uomini e profeti
Cristina Campo (Vittoria Guerrini, Bologna 1923- Roma 1977) è una delle voci più intense e raffinate della letteratura del Novecento. Poetessa, saggista, traduttrice di Simone Weil, Dickinson, Eliot, John Donne, W.C. Williams, Hoffmannsthal e di altri poeti metafisici e mistici, ha vivificato la cultura praticando «una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile» e orientandosi verso un’insonne ricerca della trascendenza e dell’eternità. I saggi che qui si pubblicano offrono una nuova lettura dell’opera campiana secondo un approccio multidisciplinare e interdisciplinare perché è questo il segreto della sua bellezza: non si può leggere con i soli strumenti della critica letteraria, ma occorre oltrepassare i confini del letterario e dell’estetico per comprendere la sua visione come un «tappeto di meravigliosa complicazione» in cui la trama e l’ordito sono gli atlanti di significato della poesia, la spiritualità cristiana, la Bibbia, la liturgia, l’arte pittorica e musicale.
CRISTINA CAMPO E LA POESIA DEL VERO AMORE
Di GIORGIO AGNISOLA
AVVENIRE; Mercoledì 27 Aprile 2022, pp.21
Cristina Campo (1923-1977) fu poetessa, scrittrice, traduttrice, liturgista, teologa. Ma ogni definizione sembra dissolversi di fronte alla sua intensa spiritualità, così totalmente emergente come un grido di gioia e di speranza dalla sua difficile eppure limpidissima vicenda umana. La sua esistenza fu indubbiamente condizionata dalla malattia congenita (una rara patologia cardiaca) che la portò giovane alla morte, lei donna raffinata e bellissima. Eppure quella condizione fisica che la segnò intimamente, non sbiadì la sua anima coraggiosa e la sua grande intelligenza. Divenne una chance di profondo riscatto umano e religioso, affermazione di una esperienza, di vita puntata a una inusitata ampiezza dell’essere e del sentire, in un orizzonte luminoso di fede. Fu la sua lucidità intellettuale a sostenerla, ma fu la sua intensità psicologica e la sua vena lirica a caratterizzarne il linguaggio, mai solo contemplativo, benché presupponesse una intimistica dimensione di silenzio aperta all’oltre, ma più propriamente esistenziale. Anche per questo la sua poesia, riflesso di una limpida teologia, è di fatto anche linguisticamente una straordinaria condensazione di emozioni, di sensazioni riflesse in una fisicità passionale e sensitiva. A Cristina Campo è dedicato un libro da poco in libreria (La disciplina della gioia, Pazzini. pagine 254, euro 22), che raccoglie i documenti di un convegno tenutosi a Firenze nel 2017, a cura di Maria Pertile e Giovanna Scarca, studiose che hanno già dedicato saggi e ricerche alla poetessa bolognese. Il libro è scandito da alcuni versi della Campo. Nella sezione “In un suono soave di campane diletto sei venuto” sono raccolte le testimonianze di due amici, Gaetano Paolillo e Giuseppina Cardillo Azzaro, quest’ultima in una intervista di Giovanna Scarca. Seguono i saggi dei relatori del convegno, raccolti nella sezione “L’ attenzione ti ha consumato le ciglia”. La terza sezione, “E al centro del roveto riavvampavano i vivi” presenta i contributi dei curatori, integrati da una antologia di testi della poetessa. Completa il volume un corpus di lettere inedite allo studioso recentemente scomparso John Lindsay Opie, uno dei più grandi esperti di iconografia bizantina con cui aveva intrecciato un’intensa relazione espistolare. Il volume è un approfondimento dell’opera e del pensiero della Campo, ma ha una sua agilità di linguaggio e di proposta. È corredato da foto che mirano a contestualizzare la vita dell’autrice e gli stessi contributi sfuggono a una pedante analisi tecnica per entrare piuttosto nell’anima della sua esistenza. Tutto porta a riassumere la figura di Cristina Campo in una liminare e illuminata testimonianza spirituale. La poetessa confidò ad Opie in una delle sue lettere: «L’Assenza· è quasi totale, resta soltanto l’Amore, che illumina la visione perduta, la Figura sparita». Il vero nome della gioia, scrivono le curatrici.
RECENSIONE A CURA DI LUCIANA MARIA MIRRI
Ancora un anno e sarà il centenario della sua nascita, ma già il 40° della sua morte è stato onorato il 25 marzo 2017 a Firenze, con un Convegno promosso dal Centro Studi Famiglia Capponi, al fine di celebrarne viva memoria scavando sempre più nel suo tesoro spirituale e culturale. Cristina Campo, al secolo Vittoria Guerrini, a Firenze è cresciuta e, certamente, è da questa città capitale mondiale dell’arte che ha assunto quella filocalia o amor della bellezza, anima della sua esistenza. A Bologna era nata il 29 aprile 1923, data che fa memoria di santa Caterina da Siena, consumatasi per l’unità della Chiesa del suo tempo richiamando a Roma il Successore di Pietro. Come la Patrona d’Italia e d’Europa, spentasi a 33 anni nell’Urbe, anche l’avventura terrena di Vittoria-Cristina si è conclusa a Roma, il 10 gennaio 1977. Aveva 53 anni.
I contributi del Convegno Internazionale fiorentino, titolato Chi ci insegnerà la disciplina della gioia?, sono stati raccolti in un volume ben curato da due studiose della poetessa, Maria Pertile e Giovanna Scarca. Nella copertina spicca il volto luminoso e sorridente di Cristina Campo, in una foto in bianco in nero scattata a Nervi nel 1970 e qui pubblicata per la prima volta. È il volto della gioia interiore, quella che irradia da profondità non sempre sondabili alla ragione, ma scavate anche da sofferenze e fatiche dell’esistere, oltre che dalle sfide della fede e della ricerca della verità. Da tali sfide non si esime mai uno spirito libero, pur nella precarietà fisica, un’intelligenza acuta, una personalità culturalmente vivace e creativa in una sensibilità finissima e nobile. Ecco Cristina Campo-Vittoria Guerrini, che la foto in uno scatto ci dona quanto i suoi scritti.
La cifra della gioia si coniuga perfettamente in lei con quella della bellezza: sono le due categorie predominanti, che inscindibilmente s’incontrano in ogni sua espressione, esperienza e percezione della realtà. In Cristina l’una è l’altra o, meglio, l’una è la disciplina dell’altra, perché la bellezza è fonte della gioia. La gioia di Cristina può identificarsi con il bonum agostiniano nel trittico includente pure il verum ed il pulchrum. Anzi, in un certo senso si può forse affermare che ne è la “declinazione femminile”, attinente alla donna latrice di annuncio salvifico, perché “la bellezza salverà il mondo”, perché il mondo “ha sete” della gioia e perché quest’ultima è la verità dell’Amore.
Non le parole, bensì lo stupore con la sua capacità di silenzio è il paradigma della gioia che in Cristina emerge dall’equazione di amore, verità e bellezza enunciati. Ne fanno fede le righe che scrive all’amico Ernesto Marchese in una lettera in cui si specchia la finezza del suo animo: “Vorrei dirle grazie per la molta bellezza che mi viene da lei” (p. 191). Ed esprime gratitudine per quanto emana da questa persona che le infonde “gioia” con l’invio di una copia del Mandylion di Edessa, custodito a Genova nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni. In esso, infatti, è quell’immagine “che ha mutato radicalmente” la sua vita, ovvero il suo “rapporto con la parola”, ella scrive. Conclude asserendo che, ovviamente, “nessuna riproduzione può dare un’idea del Mandylion: un oggetto totalmente soprannaturale e cosmico dinanzi al quale il mio amico ortodosso [John Lindsay Opie] cadde a terra prostrato, baciando terra per tre volte” (ibid.).
Personalmente, ho potuto godere della “visione” del Mandylion originale in due giorni di Convegno su Sindone e Icone a fine anni Ottanta: il silenzio della parola umana confluisce nella relazione con la Parola Unica, nell’abbraccio cosmico del mistero soprannaturale d’uno sguardo magnetico che afferra da dimensioni “altre”. L’unica risposta può essere il gesto cultuale della Chiesa d’Oriente, quello che si attribuisce alla “Presenza”. La Campo era estimatrice e conoscitrice della Liturgia bizantina. Roma poté offrirle, finché salute glielo permise, questa gioia di partecipazione alla Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo presso la chiesa di Sant’Antonio Abate all’Esquilino, con una frequentazione che le infondeva l’ebbrezza dello Spirito, nell’armonia integrale dei sensi invasi dal divino tra canti, incensi, icone dorate ed Eucaristia sotto le due specie.
Quattro sono le sezioni nelle quali è articolato il libro, traendo per tre di esse titolo dai versi della Campo: “In un suono soave di campane diletto sei venuto”, “L’attenzione t’ha consumato le ciglia”, “E al centro del roveto riavvampano i vivi”. La quarta presenta le lettere inedite della poetessa indirizzate all’amico ortodosso John Lindsay Opie, introdotte e curate da Alessandro Giovanardi, che alle proprie pagine dà titolo: Là dove posano i piedi del Divino. Le lettere sono date, oltre che in italiano, nell’originale in inglese, lingua in cui la pensatrice ben si esprimeva.
Nella prima sezione sono offerti due contributi di tipologia testimoniale per quanto concerne il contenuto. L’uno è di Gaetano Paolillo, Ricordo dell’amica Vittoria Guerrini (pp. 11-16), l’altro è di Giuseppina Cardillo Azzaro, Tanta gioia in croce (pp. 17-26). Nella memoria di un’amicizia preziosa, Paolillo svela il punto d’incontro di comune interesse tra lui, chimico metallurgico, e la Campo, letterata e poetessa: “Nei nostri discorsi entrava costantemente il Destino, o Divina Provvidenza, con i suoi imprevedibili disegni, come nelle leggi della fisica quantistica. È il denominatore di tutte le fiabe” (p. 15). La fiaba fu l’intersezione dei loro rispettivi mondi, si potrebbe dire: la disciplina della gioia della loro amicizia, anche a Roma, quando Gaetano accompagnava Cristina alla Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo per vivere, forse, la “Divina Fiaba Vera”. Giuseppina Cardillo Azzaro è intervistata da Giovanna Scarca, che dell’interlocutrice afferma essere “un’elegante signora, dai modi nobili e delicati come raramente capita d’incontrare […] La ascolto, prendo appunti mentre le parole traboccano dalla piena del cuore” (p. 17). Giuseppina sottolinea che la sua amica “ha vissuto l’amore per la Chiesa e ha servito la Chiesa”, e ha svolto “un ruolo storico che non le è stato riconosciuto” nel suo impegno ecumenico tra Oriente e Occidente nella strada aperta dal Concilio Vaticano II (p. 24). Tuttavia, la freschezza e la franchezza che l’hanno caratterizzata in purezza di ideali e di testimonianza della propria fede rimangono e tuttora s’irradiano nella riscoperta della sua personalità.
Cinque sono i saggi della seconda sezione. José Tolentino Mendonça tratta de L’avventura immensa del credere: una lettura di Cristina Campo (pp. 29-34). Tocca il tema della inattualità come via spirituale, il nesso tra quanto è autenticamente liturgico, poetico e vero e, importantissimo, il segreto della parola in Cristina Campo: ella con la parola, “ricostruisce l’icona al cuore del nostro tempo, dando alla sua frase una vertiginosa vocazione liturgica” (p. 33). Sauro Albisani presenta Contemplata tradere. Frammenti per Cristina (pp. 35-43), con una sequenza di suggestioni che culminano nel riconoscere nella Campo la scrittura come preghiera per la bellezza liturgica della sua prosa e la sinopia della parola come altro segreto della sua arte, in cui la parola si fa soffio vivificante. Giuseppe Goisis offre un’esposizione su Andrea Emo, Simone Weil, e Cristina Campo: alcune riflessioni (pp. 45-67), le quali concludono l’analisi di quanto la Campo delicatamente osserva del pensiero di Emo e di Weil dicendo che “la dialettica poetica fa intravedere, oltre la morte, la speranza di una compiuta immortalità”, dove “la comprensione dei viventi e dei morti, ancor sensibili, vicini nei ricordi e nella rete dell’Essere, balenanti nel cuore di Campo, sempre raggiante, sempre in fiore” (p. 67). Luca Maccaferri tratta di Cristina Campo e la scrittura eloquente: verità e simbolo in Parco dei cervi (pp. 69-86), annunciando il proprio studio con un’appropriata citazione di Platone sull’identità interiore del poeta che può veramente costituire la chiave di lettura per uno studio dell’opera della Campo. Il poeta è tale se “posseduto da un Dio” e se le sue “facoltà razionali” tacciono (p. 69). Allora si libra la poesia. Cristina Campo fu certamente colei che seppe superare l’abisso della sua grave cardiopatia, camminando sul filo d’oro della Fede senza mai voltarsi in basso, ovvero ripiegarsi su stessa a compiangersi. La sua “geografia interiore” manifesta la propria “anima integra, in ordinato rapporto con le Muse” e, soprattutto, “un’incrollabile fiducia nella Provvidenza”. Un giudizio risulta stupendo: in lei non vi fu “iato alcuno tra pratica delle lettere e pratica della vita” (p. 86). Chiude il gruppo Maria-Josep Balsach con Arte e visione in Cristina Campo e María Zambrano (pp. 87-100). La poesia s’intreccia con la pittura, i volti vi si identificano quando si ravvisano somiglianze che, in ultimo, si scoprono essere i più intensi richiami interiori come avviene per la Donatrice di Hugo van der Goes, scelta da Cristina Campo per copertina de Il flauto e il tappeto (pp. 87-88). Quanto al rapporto della Campo con la Zambrano, il nucleo comune pare costituito dalla “attenzione”, fonte e metodo del loro scrivere, “intuizione e forma nel lavorio incessante di uno stile che è ricerca del vero, veduto, contemplato, e ancora e sempre con amore cercato” (p. 99). Anche questo appartiene alla disciplina della gioia, poiché esso è la via perfectionis in atto.
La terza sezione si apre con il contributo di Piero Mazzucca su Cristina Campo tra pseudonimi e anonimato (pp. 103-120). In queste pagine si affronta “il perché di tanti pseudonimi scelti” da Vittoria Guerrini, che neppure disdegnò quelli maschili, come, ad esempio, per le traduzioni raccolte ne I mistici a cura di E. Zolla, importante antologia edita da Garzanti nel 1963. Fu proprio Elémire Zolla, “a lungo compagno intellettuale e di vita della scrittrice”, a offrire una spiegazione: “Un poco per il fastidio di essere associata al padre, un poco per il gusto in lei ubriacante del camuffamento e della maschera meticolosa. Non ci fu nessun motivo particolare nella scelta del nome e del cognome, una diade tra tante” (p. 105).
Arturo Donati affronta quindi il tema: «Non si può nascere ma si può morire innocenti». Ordinali della trascendenza in Cristina Campo (pp. 121-144). Illuminante è una sua osservazione al centro di pagine che si possono considerare le più dense nell’interpretazione dell’opera della pensatrice: “Campo esperisce nel dialogo [la corrispondenza in primo luogo] la ierogamia possibile, l’esercizio spirituale di percezione della compiutezza cosmica” (p. 131). La poetessa, infine, raggiungerà questo equilibrio nella “restituzione ideale della parola e della poesia dei salmi a Dio” e nella liturgia bizantina, trovandovi quella gioia “che non elude il destino, piuttosto consente di interpretare la finitudine come il passaggio obbligato verso il tremendo e magnifico dono della salvezza” (p. 143). Giovanna Scarca idealmente continua lo scavo nell’animo di Cristina Campo con L’indicibile sguardo di Dio in Canone IV (pp. 145-166). Si cerca di comprendere appieno il significato della liturgia, disseminato in tutta la scrittura campiana. Ella definisce la liturgia “fonte e meta di ogni poesia” (p. 145) e lamenta il non potervi partecipare per la salute malferma, soffre l’oblio del gregoriano e dell’uso della lingua latina. Due poesie a confronto, Diario bizantino e Canone IV, indicano l’afflato lirico e mistico dell’esperienza della Campo nella liturgia della Chiesa, la sublimazione a cui giungeva oltrepassando persino il confine dell’innata paura della morte. Afferma la Scarca: “Entrambi i testi sprigionano un’incandescenza spirituale di assoluta verticalità” (p. 163). Maria Pertile conclude la sezione con il saggio titolato: «La freccia del nostro presente» Sulla gioia di Parco dei cervi in Cristina Campo” (pp. 167-180), seguito da un’appendice di testi della poetessa, redazioni successive che conducono al Diario d’agosto (pp. 181-187). Si tratta di una ricostruzione della genesi letteraria di un testo, espressione di una tappa di rilievo della sua evoluzione umana, spirituale e letteraria: “Il cervo, come la freccia, è figura carica di significato ed è una creatura vivente […] I cervi conoscono la libertà e la verità della caccia” e la vita “sospesa ad una punta di freccia” (pp. 173.175). Simbologie bibliche, mitologiche, realtà e racconto, tutto concorre a esprimere nel simbolo del cervo l’esistenza, la sua preziosità e il dramma della sua precarietà.
Ed ecco infine la quarta sezione curata da Alessandro Giovanardi, che consente di leggere per la prima volta le dodici lettere indirizzate negli anni 1968-1970 a John Lindsay Opie, docente universitario di letteratura anglo-americana, poi di Storia dell’arte medievale, primo titolare di Arte bizantina nell’Ateneo Roma Tre e appassionato studioso di icone, scomparso pochi mesi prima della pubblicazione del volume. Dall’intenso dialogo epistolare con Lindsay Opie siamo partiti per orientare la lettura, perché la disciplina della gioia in Cristina Campo fu, in ultima analisi, la disciplina dell’amicizia, della quale scrive le dinamiche antinomiche in Diario d’agosto concludendo: “Solo in questo modo e dentro questo cerchio l’amore può risplendere senza contaminarsi. Mais une amitié pure est rare. Come una pura poesia. Che vive delle identiche leggi” (p. 187). Ed è quanto esprime la foto in copertina, che la ritrae in un momento felice, allorché sul mare ligure s’incontrò con Elémire Zolla e Gaetano Paolillo, nel vissuto della rarità d’una amicizia pura.
Luciana Maria Mirri